Vogliamo che la città, tutta, sappia cosa accadeva a Siracusa, a margine dei famosi fatti della nave Sea Watch, protagonista lo scorso inverno nel nostro mare.
È la storia di una famiglia (italiana, tocca dirlo), residente a Siracusa, con gravi difficoltà economiche; un padre disoccupato che cerca di darsi da fare, una madre con problemi di salute ed un figlio maggiorenne anch’esso disoccupato, i pochi parenti lontani: il classico nucleo familiare che, come molti altri purtroppo, stenta realmente ad arrivare a fine mese.
Per fare chiarezza su cosa si vuole qui evidenziare, è necessario prima ripercorrere brevemente la vicenda della nave della Ong battente bandiera olandese, bloccata al largo di Siracusa nel gennaio 2019.
Tutti ricordano il braccio di ferro tra il governo gialloverde da una parte e opposizioni dall’altra, da cui scaturiva un polverone ed uno “scontro sociale” fra i cittadini, e con i talk show a cibarsi di tutto questo. Far scendere e accogliere i disperati dalla nave oppure attenderne l’equa ripartizione tra gli stati europei era la domanda alla quale tutti, proprio tutti, davano risposte. Una precisazione è doverosa farla: utilizziamo il termine «clandestini» col solo fine di attenerci fedelmente ai fatti.
Non ci addentriamo qui in valutazioni politiche e diatribe che già caratterizzano il dibattito tra fazioni spesso interessate solo a spartirsi il consenso.
Torniamo quindi alla nostra famiglia. Il 10 dicembre 2018 si presentano alla porta della famiglia di Salvatore (evitiamo il cognome per motivi di privacy), due agenti di polizia, un ufficiale giudiziario e l’avvocato del proprietario dell’appartamento. In tale abitazione questa famiglia risiedeva con regolare contratto di affitto, puntualmente pagato grazie agli aiuti che Salvatore riesce a mettere insieme attraverso i suoi generosi amici. Alla vista degli agenti, Salvatore con un gesto inconsulto si gettava addosso della benzina, conservata in una bottiglia evidentemente per l’occasione. Il che costringeva la polizia a fermare l’uomo che veniva così affidato al reparto psichiatrico dell’ospedale per alcune settimane.
Nel frattempo il giudice, refertate anche le precarie condizioni igienico-sanitarie in cui versava la famiglia, rinviava l’esecuzione definitiva dello sfratto, di alcuni mesi. Motivo dello sfratto nonostante il pagamento regolare del canone di locazione? Semplice: l’esigenza del proprietario di effettuare lavori sull’immobile per poterlo rivendere. Una storia andata avanti da anni e culminata con lo sfratto a causa della difficoltà (dovuta alla precaria situazione lavorativa e dunque alla mancanza delle referenze richieste), di Salvatore, nel trovare un altro appartamento in affitto. Salvatore ci ha anche riferito di un incontro avuto con il Sindaco per trovare una soluzione. Nonostante tutta la buona volontà, nemmeno il Sindaco riusciva nel nobile intento. Stesso esito riscuotevano le incursioni di Salvatore presso gli uffici delle politiche sociali. Nessuno poteva fare qualcosa, offrire un’alternativa, un alloggio temporaneo, una qualsiasi accoglienza.
Si arriva dunque al 14 marzo 2019, giorno dello sfratto esecutivo, proprio nel momento in cui Salvatore era riuscito, tramite agenzia, a firmare una proposta di locazione presso un immobile che però sarebbe stato disponibile circa un mese dopo. Risultati vani i tentativi di convincere i proprietari a pazientare alcune settimane si è dunque tentato l’ultimo approccio (come fatto durante le settimane precedenti), con l’ufficio delle politiche sociali del Comune, presso cui un rimpallo di telefonate portava alla fine ad un contatto con l’assessorato di riferimento. Ma nulla è stato possibile.
Dunque, sembrerebbe che Siracusa non abbia un piano case. Sembrerebbe che Siracusa non abbia immobili da destinare a famiglie in difficoltà. Siracusa non ha strutture per la gestione di queste emergenze. Le telefonate con l’assessorato di riferimento portarono a null’altro che la constatazione di tutto questo. Riuscire a immaginare la scena da film che vide protagonista questa famiglia è facile. “Armi e bagagli”, Salvatore e famiglia dovettero prendere l’indispensabile, abbandonare la propria abitazione, mobili e il resto dei loro effetti personali, per vagare in città. Per poi trasferirsi in serata (e per un mese e mezzo), presso una modesta struttura alberghiera a spese di alcuni volontari della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni e di un parroco di una chiesa di Ortigia, presso cui Salvatore e famiglia usavano (e usano), appoggiarsi per un pasto caldo.
E ancora, non è lecito avere delle perplessità in merito allo spirito di accoglienza sbandierato in certi ambiti, a fronte della inconsistenza assoluta che si materializza in altre drammatiche situazioni? Quale criterio o requisito suscita da una parte l’intervento concreto, e dall’altra l’impossibilità di individuare un percorso ben organizzato e altrettanto sostenuto? Comprendiamo come questa sia solo una delle tante storie che suscitano fra le masse una guerra sociale tra poveri? Ci si rende conto o no che senza l’opera di volontariato di alcuni cittadini questa famiglia sarebbe finita all’acqua e al vento sul marciapiede di una via cittadina?
Un doveroso ringraziamento lo rivolgiamo dunque a queste persone, che per la famiglia di Salvatore rappresentano dei veri angeli, nonché unico sostengo di aiuto concreto, paradossalmente insieme all’unico strumento che lo Stato è finalmente riuscito a garantire a loro, e a chi si trova in simili difficoltà: il tanto, troppo, vituperato Reddito di Cittadinanza.
Magari tra la demonizzazione di chi a questa famiglia ha voltato le spalle…